12 Aprile 2019
Dal 2015 il Ghetto ebraico di Padova, cuore della città e luogo di fascino e attrazione, custodisce un museo fatto di storia e di mistero. Tra le strette e labirintiche vie del Ghetto, con le sue abitazioni estese in altezza, il Museo della Padova ebraica riprende al suo interno il valore, la memoria, i segreti della tradizione e della presenza dell’ebraismo nella vita della città. Non tutto ciò che ha caratterizzato il passato della comunità padovana è infatti conosciuto; molti dei difficili momenti vissuti, ma anche delle cerimonie, dei riti e dell’immenso patrimonio storico ed artistico che l’hanno contraddistinta rimangono ancora oggi da scoprire. E così il Museo, situato in Via delle Piazze, è prima di tutto un segno di vicinanza con la città, un’apertura, un invito a conoscere meglio la tradizione di questa comunità. Le opere, gli oggetti, i tessuti, gli argenti di cui questo museo si compone sono le tracce della millenaria storia ebraica di Padova. Concepito in un’unica grande sala di enorme valore simbolico, il Museo nasce dagli spazi che un tempo furono di quella Sinagoga di rito tedesco andata distrutta nell’incendio del 1943, appiccato dai fascisti. Far nascere un museo in questo luogo è un ulteriore modo per andare oltre i traumi della storia e riaffermare la forza di rialzarsi e ricominciare il proprio cammino.
Chi ha avuto modo di assistere alle cerimonie religiose della Comunità già conosce alcuni degli oggetti pregiati che compongono il Museo. Per tutti gli altri è finalmente il momento di scoprire l’immenso splendore dei tessuti dei Parokhet, i Me’il, le Mappoth, ma anche degli argenti dei Tas, dei Rimmonim, delle ‘Ataroth, custoditi nei secoli non senza enormi patimenti e sofferenze per la loro salvaguardia. Ognuno di questi oggetti porta con sé un valore e una storia, ma anche un particolare significato nella vita e nelle cerimonie religiose del mondo ebraico. I Parokhet rappresentano infatti il pregiato tendaggio posto davanti all’Aron ha-Kodesh, il Me’il è il manto che, assieme ai Rimmonin (i puntali), al Keter (la corona) e al Tas (la targa) contiene il rotolo della Torah, il più importante insegnamento scritto dell’ebraismo. E proprio la Torah compare nel museo in un esemplare del Cinquecento con scrittura di tipo Ashkenazita. Il logo stesso del Museo, oltre a richiamare i cinque finestroni dell’ex sinagoga tedesca, si rifà al contempo ai cinque Libri di cui si compone la Torah.
Tra i numerosi e meravigliosi Parokhet presenti emerge quello egiziano del Cinquecento con al centro il simbolo della Menorah, il grande candelabro a sette braccia, uno dei simboli classici dell’ebraismo. Nelle teche sono poi esposti alcuni esemplari del Settecento di Yad, le manine in argento dedicate alla lettura della Torah, e di Shofar, i corni di montone suonati nelle feste di Rosh Ha-Shanà, il capodanno ebraico. Anche lo Shofar ha un valore simbolico di enorme importanza; nella mistica il suo suono rappresenta infatti un tramite fra l’uomo e la voce divina. Si trovano poi alcuni esempi di Ketubboth dell’Ottocento, contratti matrimoniali redatti su pergamena e decorati con simboli e rappresentazioni allegoriche di particolare bellezza. E ancora il Machazor, formulario di preghiere stampato a Venezia nel 1716, e l’Haggadà di Pesach, libro stampato nello stesso anno che segna un’altra ricorrenza di grande valore, il Pesach, la Pasqua ebraica, in ricordo dell’uscita degli ebrei dall’Egitto e della liberazione dalla schiavitù. Di particolare valore è poi la Meghillat Esther, il manoscritto su pergamena miniata del diciottesimo secolo nel quale si racconta della minaccia di persecuzione alla quale gli ebrei andarono incontro sotto l’impero persiano, sventata grazie al coraggio della regina Ester. La lettura integrale della Meghillat, il racconto che vede Esther protagonista, contraddistingue una delle grandi celebrazioni della vita ebraica, il Purim, la festa che segna il ricordo del pericolo scampato. Per chi non ha mai avuto modo di parteciparvi, il Purim è anche una delle feste più vitali e divertenti della tradizione ebraica, con i suoi travestimenti, i suoi canti, e con i bambini che, in Sinagoga, sono invitati a far rumore con grida e salti per scacciare il maligno.
Sul fondo del Museo, nel lato est della sala, si impone la fotografia retroilluminata dell’Aròn, l’armadio sacro della vecchia Sinagoga tedesca recuperato dall’incendio del 1943 e in seguito inviato in Israele nel 1955. Il suo “ritorno”, seppur virtuale, è un altro dei motivi di commozione e di inestimabile valore di questo luogo. Ma tra le sue mura, il Museo accoglie anche le tracce della sua Storia in Padova, del suo rapporto con l’Università (che per prima accolse gli studenti ebrei), nonché i segni di una integrazione che ha conosciuto, in particolare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un momento di straordinaria affermazione nel quale alle più alte cariche istituzionali di Padova erano stati eletti membri appartenenti proprio alla Comunità ebraica. A tal proposito, sono presenti nel museo alcune importanti testimonianze di tale integrazione, nonché di vicinanza tra mondo ebraico e mondo cattolico: le lettere che Leone Romanin Jacur e Papa Pio X si scambiavano in segno d’amicizia ne costituiscono probabilmente l’esempio più significativo. Così tante ricchezze che il museo stesso, nell’esporle, attua un processo di periodica rotazione al fine di poter mostrare l’intero patrimonio di cui dispone. Un primo segno di vitalità di questo spazio al quale si aggiungono mostre periodiche di pittura e fotografia che si legano al contesto storico-cultura del museo, nonché conferenze ed incontri.
Infine, mi fa particolarmente piacere ricordare la presenza al Museo di due videoinstallazioni che ho avuto il piacere e l’onore di curare personalmente. A un primo documentario breve sulla storia del Ghetto, che si pregia della voce a commento di Corrado Augias, segue una lunga e articolata videoinstallazione il cui titolo, proveniente da Deuteronomio, “Generazione va, generazione viene”, serve a ricordare che la storia è fatta di eventi legati gli uni agli altri, nella quale gli accadimenti del futuro sono una conseguenza diretta di quanto è avvenuto o si è fatto nel passato. Non a caso toledot è il termine ebraico con cui si definisce la storia, ma anche l’idea di conseguenza, di concatenazione di eventi tra passato, presente e futuro. Con questa videoinstallazione ho voluto raccontare la vita della comunità ebraica di Padova attraverso alcuni dei suoi personaggi più rappresentativi, dal 1400 ai giorni nostri: rabbini il cui ricordo è vivo ancora oggi, anche ben al di là della nostra città, come Jeudah Minz, Meir Katzenellenbogen, Moshè Chayyim Luzzatto (RaMHaL), Moshè David Valle, Samuel David Luzzatto (SHaDaL) e Isaac Abravanel, giunto a Padova solo dopo la sua morte; e poi personalità come Leone Romanin Jacur, Giacomo Levi Civita, Leone Wollemborg e Vittorio Polacco, distintisi nei loro ruoli di deputati, sindaci, rettori. Ma quest’opera vuole idealmente essere il racconto di tutte le donne e di tutti gli uomini che ne hanno fatto parte e che l’hanno rappresentata, nonché la manifestazione di quanto la vita della comunità sia ancora oggi profondamente radicata, presente, nella città di Padova.
Serviva un modo originale, inconsueto, per poter raccontare questa storia. Serviva trovare un insieme di soluzioni narrative, visive, sonore che fossero capaci prima di tutto di evidenziare la convivenza di personaggi e di epoche differenti, tutti e tutte ancora oggi presenti, qui, con noi. E serviva inoltre raccontare come la Storia possa essere vista sotto molteplici punti di vista, sotto diverse angolazioni, sotto lo sguardo di esperienze e racconti di vita plurimi, tutti ugualmente necessari a formare una comunità. Narrare la storia può significare allora rielaborare il passato, non per falsificarlo, bensì per costruire un legame tra momenti storici diversi, anche lontani tra loro, eppure egualmente presenti nel momento in cui avvertiamo la necessità di riosservarli e ricomprenderli oggi. In questo processo di costruzione della memoria, ogni personaggio è dunque chiamato a dialogare con gli altri ma anche con l’attuale, con il nostro presente, con un tempo in cui proprio a loro ci si rivolge per ritrovare una forma di continuità, per rinsaldare un legame con la tradizione.
Anche la musica ha un ruolo di particolare valore in quest’opera. La colonna sonora trova infatti le proprie fondamenta nella celebre storia musicale ebraica, rivista attraverso brani e suoni del contemporaneo. Accanto alle musiche provenienti dal repertorio di Gareth Dickson, di Grouper, del Fondaco dei Suoni, si trovano i brani scritti appositamente per questa videoinstallazione da Guido Rigatti e Nicola De Bello, nonché le composizioni di Black Ox Orkestar ed Esmerine, tra le più significative espressioni di ciò che significa confrontarsi oggi con il klezmer e con la tradizione ebraica.
I racconti nascono anche dai luoghi. Sono questi ultimi a far vivere una storia, a motivare il fatto che questa sia narrata. Non a caso si usa l’espressione “avere luogo”. Ecco perché ognuno dei racconti, dei personaggi, si sviluppa in un differente luogo della Padova ebraica: dalla sinagoga italiana ai sotterranei dell’ex sinagoga di rito tedesco, dalle corti del ghetto ai cimiteri ebraici (di Via Sorio, Via Campagnola, Via Wiel, Via Canal), dall’ex Convitto rabbinico di Via Barbarigo (oggi divenuto l’Istituto “Nievo”) sino all’Università di Padova, per eccellenza luogo di integrazione tra differenti culture. Del resto, un luogo è anche un posto a cui fare ritorno, in cui costruire e ricostruire la propria esistenza, soprattutto dopo una partenza, una fuga, un abbandono. E si sa quanto la storia della Comunità ebraica sia stata segnata da partenze, fughe, abbandoni. Sulla base di queste considerazioni è nata un’opera che si compone di una molteplicità di fonti visive e di percorsi narrativi, proiettati direttamente sulle nicchie e sulle pareti del Museo. La stessa verticalità degli edifici del ghetto ebraico è così ripresa da quella dei filmati sviluppati in altezza. Immagini pensate per rappresentare un insieme di vite, di persone, di pensieri che continuano a convivere tra loro, assieme a noi, in particolare in un luogo carico di significati come quello dell’antica sinagoga tedesca, dal quale il nostro lavoro prende le mosse e nel quale si conclude. Ma il luogo è ancora una volta anche quello dell’antico ghetto di Padova, uno degli ambiti più belli e nascosti del centro città. Prima di questa esperienza l’avevo sempre attraversato con lo sguardo di chi contempla un segreto, di chi osserva solo la facciata esteriore di un piccolo mondo celato. Così era del resto. Via San Martino e Solferino, Via dei Fabbri, Via delle Piazze, Via dell’Arco. Passaggi di raro splendore, che si intrecciano e si annodano, proprio come la storia della comunità ebraica, proprio come il patrimonio di cui si compone il suo Museo.
Denis Brotto
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Denis Brotto insegna “Cinema e nuove tecnologie” all’Università degli studi di Padova. Tra le sue pubblicazioni sono presenti il libro “Osservare l’incanto”, prima monografia italiana su Aleksandr Sokurov, e il volume “Trame digitali” su cinema e nuove tecnologie. Alla ricerca teorica affianca la ricerca pratica attraverso la realizzazione di video e documentari. Ha fatto parte del collettivo Ipotesi Cinema diretto da Ermanno Olmi e ha realizzato i documentari “Patrice Leconte” (2010) e “La Pièce” (2011), in co-regia con Mario Brenta. Nel 2015 ha realizzato le videoinstallazioni presenti al Museo della Padova ebraica. Nel 2017 ha diretto il documentario “Sciarrino, séances” realizzato assieme agli studenti del Dams dell’Università di Padova con l’Orchestra di Padova e del Veneto e dedicato al compositore Salvatore Sciarrino.
Per prenotazioni o informazioni compilate il form e saremo lieti di rispondervi
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