16 Luglio 2020
Nel pomeriggio di lunedì 17 luglio 1944, un gruppo di militari tedeschi prelevarono dal campo di Vo', 47 ebrei padovani per deportarli, due giorni dopo presso la Risiera di San Sabba e da lì ad Auschwitz.
Tra questi vi erano Ada Levi e la figlia Irma Ancona, vogliamo ricordarle insieme agli altri ebrei padovani deportati, proponendovi la recensione del libro "Il vescovo degli ebrei. Storia di una famiglia ebraica durante la Shoah" di Meir Polacco e Paola Fargion, edito da Puntoacapo lo scorso anno.
La recensione che segue, a cura di Mariarosa Davi, sarà pubblicata nel numero di agosto di "Padova e il suo territorio".
"Il “vescovo degli ebrei” protagonista del libro è il rabbino Adolfo Ancona, padovano di famiglia e di formazione (era stato allievo del famoso Eude Lolli della celebre scuola rabbinica di Padova), ma trasferito ad Acqui Terme in ragione del suo magistero, essendo divenuto rabbino capo di quella città. È la storia di una famiglia ancora cospicua al tempo delle leggi razziali. Commercianti di tessuti pregiati (poi anche tappezzieri), avevano il negozio in via dell’Arco e la casa in via Giovanni Prati, nel cuore dell’antico ghetto di Padova, a due passi dalla sinagoga e dalla sede della Comunità ebraica. Non si erano mai interrotti i rapporti tra il rabbino Adolfo e il fratello Giulio, che aveva continuato l’attività commerciale di famiglia. Periodicamente si ritrovavano a Padova, fino all’estate del 1943. Poi, la dispersione violenta causata dalla persecuzione dissolse il nucleo familiare e annientò il ramo padovano: Giulio, la moglie Ada, la figlia Irma furono uccisi ad Auschwitz, mentre si salvarono altri tre figli già da tempo allontanatisi da Padova. Anche il rabbino Adolfo perse nella Shoah il figlio minore, Roberto Davide, ed un’altra familiare.
Dopo decenni (“perché tutte le sofferenze subite avevano bisogno di tempo per essere elaborate, assorbite e curate per guarire, finalmente”), gli autori, un pronipote italo-israeliano del rabbino Ancona e la moglie, hanno raccolto con passione e cura amorevole le memorie frammentate della famiglia superstite, le testimonianze residue, le tracce documentarie, componendo un racconto avvincente che si legge tutto d’un fiato, trascinati dall’incalzare degli avvenimenti e dalla sorprendente levità con cui sono narrati. I toni prevalenti sono infatti quelli dell’empatia, della resilienza e della solidarietà, la drammaticità degli eventi è alleviata dalle minute gioie che comunque tengono attaccati alla vita anche nella quotidianità più precaria: le ricorrenze, la cucina, il vezzo delle piccole schegge di liquirizia di cui il rabbino non si privava mai, e che nella dolorosa clandestinità costituirono un tenue ma tenace legame con il mondo perduto: “Ogni volta che ne metteva in bocca qualcuna chiudeva gli occhi e gli ritornavano alla memoria il buon sapore di casa, il profumo di sua moglie, del suo basilico e le risate gioiose dei nipotini. Quella liquirizia era la delizia che lo legava alla vita e ai ricordi […] e gli dava la forza per resistere”. Più che i carnefici nella narrazione trovano posto i salvatori, e sulla crudeltà della persecuzione si fa prevalere l’eroismo della solidarietà. Osserva Luca Alessandrini nella Prefazione che gli autori “testimoniano l’urgenza del ricordare, perché il ricordo è il futuro, nei confronti del quale è necessario nutrire fiducia; ma testimoniano anche la bellezza del ricordo oltre la sua necessità. Guardano al passato per esortarci al futuro: è stato possibile essere giusti in condizioni terribili, nell’immane tragedia della Seconda guerra mondiale e della Shoah. È possibile esserlo ancora”.
Un figlio riparato in Svizzera, un altro nascosto a Milano, un nipote entrato nelle file dei partigiani, Adolfo Ancona si salvò, dopo i primi precari rifugi presso famiglie di contadini, nelle cantine della Pensione Croce Bianca di Stresa dove la proprietaria, Valentina Padulazzi, tenne nascosti dodici ebrei per oltre un anno. Anche un altro figlio, Raffaele, con la moglie e i due bambini, fu salvato dall’azione silenziosa e corale di tutto un paese, Cartosio, che li accolse e protesse.
Tra quelli che non sopravvissero, un singolare caso ricongiunse nel tragico destino finale il figlio del rabbino, Roberto Davide, arrestato a Milano e da lì partito per Auschwitz il 2 agosto 1944 sul convoglio 14, e lo zio padovano Giulio Ancona che a Verona fu caricato sullo stesso convoglio. Arrivarono ad Auschwitz il 6 agosto. Entrambi furono uccisi. La moglie di Giulio, Ada e la figlia Irma li avevano preceduti di soli tre giorni.
Questo libro è stato presentato in sala Paladin del Comune di Padova il 23 gennaio scorso, nell’ambito delle iniziative per il Giorno della Memoria. Poco prima, davanti a quella che era stata la casa degli Ancona, in via Giovanni Prati 7, nel corso di una suggestiva cerimonia pubblica, con intervento del sindaco Sergio Giordani e di alcuni discendenti della famiglia Ancona, erano state posate tre “pietre d’inciampo” a ricordo di Giulio, Ada ed Irma Ancona. Già da qualche anno il Comune di Padova e la Comunità ebraica hanno aderito all’iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig e in diversi luoghi della città sono ormai già 28 le piccole pietre dorate che commemorano altrettanti ebrei padovani uccisi nella Shoah."
Altre notizie sugli ebrei, per i quali a Padova sono state posate le pietre d'inciampo, potete trovarle visitando il sito: http://www.lepietredinciampoapadova.it/ realizzato e aggiornato da Sofia Martinello che da pochi mesi ha inserito la versione in inglese ed ebraico.
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