27 Gennaio 2020
Alla metà degli anni Trenta, Padova contava intorno ai 140.000 abitanti: fra di loro il censimento razziale dell’agosto 1938 individuava circa 700 ebrei residenti in città.
Subito dopo il censimento, vennero le leggi antiebraiche: centinaia di provvedimenti che dal 1938 al 1943 colpirono gli ebrei allontanandoli dalla scuola e dai luoghi di lavoro (prima dai lavori pubblici, poi da quelli privati), inseguendo e vietando via via ogni possibile professione. Agli ebrei fu negata ogni occasione di contatto con gli ‘ariani’, mediante il divieto di accesso ai luoghi pubblici, alle associazioni sportive, ai luoghi di villeggiatura, e con la proibizione di spostarsi senza autorizzazione della questura. Questa graduale negazione dei diritti civili rispondeva alla precisa direttiva emanata dal Ministero dell’interno già nel 1939 che imponeva ai prefetti di attuare con ogni mezzo una “lenta ma inesorabile separazione, anche materiale” degli ebrei dagli italiani.
Si giunse anche alla damnatio memoriae con il divieto di stampare o rappresentare opere di autori ebrei, la sostituzione dei nomi di strade e di istituti intitolati ad ebrei, perfino la cancellazione dei loro nomi dagli elenchi telefonici. L’accelerazione finale impressa con l’occupazione tedesca e la costituzione della RSI nel settembre 1943 non fu che la conclusione inevitabile di questo processo di “lenta ma inesorabile separazione”, vero preludio all’eliminazione. La svolta drammatica nella persecuzione giunse Il 30 novembre 1943 quando fu emanata l’ordinanza di polizia che decretava per gli ebrei l’arresto, l’internamento in appositi campi di concentramento e il sequestro di tutti i loro beni.
Dal 1938 il numero degli ebrei padovani era rapidamente diminuito. Chi intuiva la tragedia incombente cercava di emigrare, anche verso l’America. Nel novembre 1943 gli ebrei ufficialmente presenti in città erano ancora circa 450, ma in realtà quasi tutti si erano già resi “irreperibili”. I mandati d’arresto subito spiccati per tutti, anche per i bambini, andarono spesso a vuoto, risultando i destinatari “partiti per ignota destinazione”. Alcuni ebrei padovani furono arrestati al confine mentre tentavano di fuggire in Svizzera (come la famiglia Gesess e la famiglia Foà) o in altre città dove avevano cercato rifugio, come la famiglia Ducci a Firenze e Gemma Bassani a Roma. A tutti loro abbiamo dedicato negli anni scorsi una pietra d’inciampo. Chi era rimasto a Padova aveva cercato un nascondiglio, soprattutto in campagna. Ma alcuni, per lo più anziani, erano rimasti nelle loro case, forse confidando che l’età avanzata e le precarie condizioni li avrebbero tenuti al riparo da ogni altro accanimento. Anche Giulio Ancona, la moglie Ada e la figlia Irma non si erano allontanati dalla loro abitazione e furono tra i primi ad essere arrestati.
Giulio Ancona, nato a Padova nel 1872, era tappezziere. La sua famiglia era stata numerosa, con ben sei figli, due dei quali erano però morti in giovane età. Il figlio maggiore, Leone, era emigrato a Parigi dal 1925, come risulta dallo stato anagrafico di famiglia compilato periodicamente dalla questura. Anche altri due figli, Enrico ed Edgardo, sposati, non abitavano più a Padova. Alcune note della Questura informano che Edgardo, il più giovane, aveva ottenuto nel 1939 la discriminazione. La discriminazione (una limitata ed illusoria esenzione dalle restrizioni razziali concessa ad ebrei che avessero particolari ‘benemerenze’ politiche o di guerra) era stata estesa anche ai genitori, ma fu revocata nel 1942. In casa con i genitori era rimasta solo Irma, allora quarantenne, che, come risulta dalla sua scheda, doveva assistere la madre inferma. Se l’attività di tappezziere di Giulio aveva potuto assicurare alla famiglia una certa agiatezza, le restrizioni imposte dalle leggi razziali e la guerra l’avevano via via impoverita e le condizioni economiche degli Ancona, segnalate periodicamente dai rapporti della questura, risultavano ormai ‘disagiate’ e ‘misere’.
Giulio Ancona fu arrestato da due agenti di PS nella sua casa di via Giovanni Prati 7, il 3 dicembre 1943, e fu subito internato nel campo di concentramento provinciale, frettolosamente aperto proprio quel giorno nella villa Venier di Vo’ Vecchio, che era occupata in parte anche da alcune suore elisabettine.
Così il parroco di Vo’, che aveva la canonica attigua alla villa, descrive l’inizio dell’internamento:
Il primo gruppo di 15 persone arrivò qui alle 4 pomeridiane del 3 dicembre 1943. Uomini e donne chiusi a chiave in una corriera. Una signora anziana dovettero portarla di peso fino al terzo piano. Con loro arrivò un camion di paglia che fu accomodata sul pavimento freddo e umido del pianterreno. Così passarono la prima notte. “Che cosa fanno? È meglio che ci facciano morire!” esclamò una signora anziana. La cena di quella sera fu un po’ di latte che le suore per caso avevano per se stesse”.
Un giorno in più per prepararsi all’arresto fu invece concesso alla moglie di Giulio, Ada Levi, inferma, e alla figlia Irma, che due poliziotti prelevarono dalla loro casa nel pomeriggio del 4 dicembre. Furono trasferite anch’esse, il giorno successivo, al campo di Vo’.
Una disposizione ministeriale stabiliva che gli ultrasettantenni e i coniugati con ariani fossero dimessi il campo: così 21 internati furono presto liberati, pur restando sotto sorveglianza della questura, e fra essi anche Giulio che di anni ne aveva già 72.
La moglie Ada avrebbe compiuto 70 anni il 19 aprile 1944, e già l’11 marzo aveva scritto al questore perché fossero avviate le pratiche per il suo rilascio: la domanda includeva la supplica che “per evidenti ragioni di umanità”, con lei fosse liberata anche la figlia Irma, l’unica in grado di assisterla:
La sottoscritta fa presente le sue tristi condizioni di salute […] che le rendono impossibile di accudire a qualsiasi lavoro. Anche il marito Ancona Giulio ha la grave età di 72 anni e non può aiutarla nel disbrigo dei lavori domestici. La sola persona che potrebbe aiutarla è la figlia Ancona Irma che si trova pur essa in questo campo di concentramento. Per evidenti ragioni di umanità la sottoscritta chiede che sia dimessa anch’essa dal Campo di Vo’ Vecchio e le sia concesso di seguirla per poterla curare, senza di che la sottoscritta sarebbe priva di ogni cura non avendo alcun’altra persona che le rechi aiuto”.
La liberazione di Ada fu presto concessa, già il 27 marzo venne ‘dimessa’ dal campo di concentramento. Ma, come precisa una nota manoscritta del comandante del campo, non se ne andò e rimase internata di sua volontà: la figlia Irma, infatti, non era stata autorizzata a seguirla. E cosa avrebbe potuto fare Ada da sola, inferma e priva di mezzi? Madre e figlia rimasero quindi insieme fino alla retata del 17 luglio, quando i tedeschi al comando del capitano Willy Lembcke, rastrellarono gli ebrei internati per trasferirli al carcere di Padova, e successivamente alla Risiera di S. Sabba a Trieste. Da lì il 31 luglio partirono per Auschwitz, dove arrivarono la notte del 3 agosto. Ada e Irma furono subito uccise.
Giulio Ancona, dopo aver lasciato il campo di Vo’, probabilmente non era più potuto rientrare nell'appartamento di via Prati, requisito dai tedeschi, e non sappiamo dove avesse trovato rifugio e come fosse vissuto. Nell'estate del 1944 risultavano a Padova non più di una ventina di ebrei (quasi tutti anziani), sottoposti a sorveglianza della questura. Ma in una delle ultime retate, il 30 luglio, Giulio Ancona fu di nuovo arrestato, questa volta dai tedeschi, e incarcerato a Padova e poi a Verona. Da lì il 2 agosto fu inviato ad Auschwitz, dove fu ucciso all’arrivo, il 6 agosto: solo tre giorni dopo la moglie e la figlia.
23 gennaio 2020
Mariarosa Davi
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